
I Piemontesi, pur facendosi precedere da proclami liberali e da una intensissima propaganda antiborbonica, si comportarono da violenti “conquistadores” tanto con il popolo quanto con molta nobiltà duosiciliana, soprattutto quella che non viveva nella Capitale.
Furono chiuse con decreto le antiche cave d’argento per favorire gli alleati francesi. Furono poi chiuse le ricche fabbriche manifatturiere e l’industria fiorente del baco da seta per favorire quelle del settentrione. Vennero boicottati i bacini e gli arsenali navali, in cui si fabbricavano prestigiosi battelli (il primo a vapore fu realizzato nel Regno) al fine di favorire i concorrenti cantieri liguri. Non si dette seguito alla costruzione di nuove tratte delle ferrovie che avevano (con la Napoli – Portici) iniziato i Borboni. In Sicilia, che era da secoli il granaio d’Europa e che dai suoi porti faceva partire prodotti agricoli ed agrumi per tutta l’Europa, si boicottarono i trasporti impedendo che le mercanzie giungessero regolarmente ai porti, i quali in breve tempo persero la loro secolare importanza mercantile.
Fu introdotta la carta moneta, (dal 1866 a corso forzoso) al posto degli scudi in oro, anche perché fu prelevato il tesoro napoletano e fu addirittura confuso il debito pubblico. Furono inviati al sud Prefetti settentrionali, che non capivano il dialetto e gli usi e costumi secolari dei meridionali e che furono visti come “truppa d’occupazione”. Fu reintrodotta la tassa sul macinato , cioè sul pane, che era l’elemento essenziale per la sopravvivenza dei poveri. Fu introdotta una tassa sul sale e sui tabacchi, che allora la Sicilia esportava in tutto il mondo, introducendo il monopolio di stato.
Bisogna poi sottolineare che, con l’annessione, venne introdotta la leva militare obbligatoria fino ai 40 anni (sino ad allora il servizio militare nel regno era a ferma volontaria) : questo fece sì che molti giovani si dessero alla diserzione o andassero ad ingrossare le file dei “briganti”. Un forte inasprimento degli scontri arrivò nell’agosto del 1863 con la famigerata Legge Pica, che per far fronte alle rivolte nel meridione riportò la legge marziale, i processi militari e le deportazioni di molti “briganti” verso il nord del Paese e in particolar modo nella fortezza di Fenestrelle in Piemonte, da cui molti non fecero più ritorno.
Gli eccessi dell’esercito regolare si verificarono in particolare nei confronti della popolazione civile, diversamente a quanto accadde nella coeva Guerra di secessione americana.
Molti furono i paesi e le città che diedero un contributo in vite umane. Da ricordare sicuramente il massacro di Bronte da parte di garibaldini comandati da Nino Bixio, di Isernia dove furono mostrate le teste mozzate e racchiuse in una gabbia di 4 briganti, San Lupo, Casalduni e Pontelandolfo che furono quasi rasi al suolo dai bersaglieri.
Una elaborazione critica di quegli eventi è fiorita solo da una ventina di anni a questa parte: infatti una vera e propria rimozione della memoria storica ha condizionato pesantemente, insieme alle dinamiche economiche e politiche del nuovo stato italiano, il formarsi di un comune sentire nazionale, ed è stato altresì per lungo tempo fonte di incomprensioni e rancori tra le diverse anime del Paese.
Perduta l’indipendenza, entrarono in crisi proprio quei settori industriali che avevano visto il Regno primeggiare in Italia. Infatti, i principi liberisti allora in voga segnarono la fine delle piccole e non più “protette” imprese meridionali rispetto alla concorrenza britannica e francese, in una competizione che si svolgeva sostanzialmente sul mercato interno.
Alla crisi contribuì inoltre l’incameramento delle casse del Banco nazionale delle Due Sicilie (443 milioni di lire-oro, all’epoca corrispondenti ad oltre il 60% del patrimonio di tutti gli stati pre-unitari messi insieme) da parte di quelle esauste del Piemonte, indebolite drammaticamente anche dalla guerra di unificazione. Lo stesso istituto di credito fu poi scisso in Banco di Napoli e Banco di Sicilia.
Uno degli atti più significativi fu la sistematica delegittimazione dell’antichissima nobiltà delle Due Sicilie, perseguita con costanza e rigore quasi scientifico fino, praticamente, alla fine della II guerra mondiale. Molti latifondi vennero tolti ai proprietari e dati a collaborazionisti compiacenti; pochi furono i riconoscimenti nobiliari (anche perché moltissime famiglie, in un estremo atto di orgoglio, rifiutarono di farsi riconoscere); l’ “epurazione” culminò nella stesura di un elenco nobiliare ufficiale nel 1922, dal quale la stragrande maggioranza della nobiltà delle Due Sicilie veniva esclusa. Ancora oggi, sono molti i “cani da guardia” di tale elenco che sostengono che la nobiltà italiana è stata, è e sarà solo quella nell’elenco ricompresa; ovviamente, nessuno di tali “custodi” può – ahimè per lui – vantare significative tradizioni duosiciliane.
Invidia? Forse. E’ innegabile che moltissime delle famiglie nobili delle Due Sicilie potessero vantare origini più antiche ed illustri delle famiglie del Regno di Sardegna, compresa la famiglia reale piemontese. È facile rispondere a codesti Signori che, così come loro non riconoscono le famiglie duosiciliane, molte delle famiglie duosiciliane non riconoscono il governo sabaudo e tutto ciò che ad esso è seguito.
La nobiltà delle Due Sicilie era fiorente, ricca, colta; riuniva in sé tanto l’orgoglio storico per le proprie origini, quanto la formazione culturale e lo slancio imprenditoriale che altrove sarà tipico della borghesia (classe che, ricordiamolo, nel regno duosiciliano non fiorì come in altre parti d’Italia). Anche il procedimento di nobilitazione di una famiglia era molto differente rispetto alle procedure sabaude, nel pieno rispetto della ricchezza e varietà delle culture che si erano succedute nell’amministrazione del Regno, e della relativa ‘indipendenza’ delle varie Provincie del Regno, e dei grandi Feudatari, dal potere centrale.
Un ottimo compendio della legislazione araldico – nobiliare del Regno delle Due Sicilie può essere consultato sul sito del Libro d’Oro della Nobiltà Mediterranea .
La storia, si sa, è fatta dai vincitori. Per più di un secolo, il Sud dell’Italia è stato artatamente mantenuto in stato di povertà ed abbandono, e si è voluto far credere, giungendo ad insegnarlo nelle scuole, che così era sempre stato: una povera terra fatta di uomini miserabili; tacendo dei furti (ricordiamo, di nuovo, i 443 milioni di lire-oro del Banco Nazionale delle Due Sicilie rubati dai Piemontesi, e della sostituzione delle monete d’oro del Regno con carta moneta – cosa, questa, che gettò le radici per l’evoluzione del fenomeno del signoraggio, uno dei peggiori cancri dell’economia moderna) e delle violenze perpetrati dagli eserciti nordisti fino a decenni dopo l’invasione. Il Sud sfiorì, mantenuto sotto il tallone del nuovo potere centrale che ne aveva usurpato l’antica storia; divenne terra fertile per la nascita delle organizzazioni malavitose le quali, col tempo e non ostacolate, presero il sopravvento sul potere centrale; e la gente del Sud, ridotta alla fame, fu costretta ad emigrare al Nord, per far fiorire con il proprio lavoro, mantenuta in condizioni esistenziali indegne di un animale e spesso sacrificando la propria vita, le fabbriche della nuova borghesia industriale delle regioni settentrionali – che non avrebbe potuto arricchirsi senza il lavoro dei “nuovi schiavi” del Sud; oppure all’estero, verso le Americhe, l’Australia, gli altri Stati d’Europa.
Vivaddio, la Storia non si ferma mai, e sempre, nel tempo, prende le sue rivincite. Sono sempre più numerosi, negli ultimi decenni, gli studi che svelano ciò che realmente è avvenuto, e come i cittadini delle Due Sicilie siano stati depredati, umiliati, violentati nella loro dignità e nel loro orgoglio ed esiliati dagli invasori del Nord. Le famiglie del Sud che non erano emigrate in numerosi casi appartenevano all’antico ceto dirigente, alla nobiltà delle Due Sicilie, che in qualche modo era riuscita a sopravvivere ed aveva conservato i suoi ricordi, le sue tradizioni, la sua storia, la sua fierezza. La rivoluzione di Internet ha consentito a chiunque di raccontare le proprie vicende, al di fuori dei canali “ufficiali” e “consentiti”. Così è diventato un preciso dovere di tutti coloro che abbiano un tassello da aggiungere alla rinascita (quanto meno nella memoria) dell’antico Regno, contribuire, anche con poco, ma con sincerità e rinnovato orgoglio, raccontando la storia propria e della propria famiglia, alla ricostruzione, o meglio forse al ritrovamento, di un passato perduto, seppellito sotto secoli di propaganda, di violenza, di menzogne, di impoverimento.
La mano del tempo non è stata pietosa passando sulle testimonianze documentali nelle provincie dell’antico Regno. L’incuria, le vicissitudini storiche, le stesse forze della natura hanno contribuito a disperdere o distruggere i fondi documentali, gli archivi parrocchiali, notarili, statali, unica fonte documentale scientificamente rigorosa nella ricostruzione storica. Tuttavia, qualcosa è rimasto; che, unito alle molte opere scritte da storici del passato e del presente e pubblicate da una miriade di piccole o grandi case editrici e disperse per mille biblioteche, ha consentito allo studioso di esercitare la propria pazienza di mosaicista ed ottenere un quadro armonico e scientificamente valido nella sua ricerca di vite, vicende, storie.
Tra queste opere, nella storia della Calabria, il ruolo più importante è senza dubbio giocato dal “Settecento Calabrese” del barone Franz von Lobstein, Balì del Sovrano Militare Ordine di Malta. Del suo amore per la Calabria, così come del rigore delle sue ricerche, non possiamo dubitare, e dobbiamo e vogliamo rendergli grazie.
Le pagine che seguono sono dedicate a narrare la storia della mia famiglia, la famiglia Cuccomarino, una delle tante della nobiltà di Calabria. Attraverso i suoi componenti, la loro storia, i loro matrimoni, le loro alleanze, è possibile intravedere uno spaccato di vita intensa, onorata, che affonda le sue radici in tempi antichissimi, fino all’alto medioevo.
Ogni famiglia, si sa, ha le sue leggende, i suoi personaggi mitici, forse le sue fiabe. Può essere il caso, ad esempio, del protospataro Zaccaria, generalebizantino inviato in Italia dall’Imperatore Giustiniano II nel VII secolo, figura storica le cui vicende sono ben inquadrabili e testimoniate, ma la cui relazione con la mia gente, però, è solo testimoniata da Padre Fiore da Cropani nella sua “Calabria illustrata”.
Così come può essere il caso della discendenza del ramo Galluccio dalla famiglia reale normanna, fatto oggi difficilissimo da provare ma tuttavia abbondantemente sottolineato dagli storici in tempi passati e recenti.
Ognuno può intendere questi (pochi) casi di “storia con storiografia discutibile” secondo le proprie inclinazioni. Ciò che conta è che non solo i miei avi, ma anche le persone intorno a loro, nobili e popolo, erano assolutamente convinti della loro realtà; e ciò ha determinato, nei secoli, il dipanarsi delle loro vicende.
Ciò che è innegabile è che molte delle famiglie che appaiono nelle prossime pagine e che poi sono confluite in quella che, indegno erede, oggi io rappresento, appartenevano a nobiltà antichissime, bizantine, normanne, angioine, spagnole. E anche se oggi molti dei nomi di famiglia che si troveranno continuando nella lettura sono estinti, un po’ del loro sangue, e quindi la loro storia, è conservato in noi, per continuare a fiorire (almeno questa è la nostra speranza) nei secoli che verranno, insieme con il ricordo ritrovato dell’antico, glorioso Regno delle Due Sicilie.
Il mio riconoscente ringraziamento, per il sostegno e l’aiuto nei miei studi, va ai cari amici marchese dr. D. Marco Lupis Macedonio Palermo di Santa Margherita, che ha condotto personalmente e con sapienza tutte le ricerche negli archivi notarili e parrocchiali di Calabria Ultra, e marchese avv. D. Roberto Celentano, i cui consigli ed osservazioni hanno rappresentato un autentico tesoro per la ricostruzione di molti complessi aspetti delle vicende della mia famiglia. Senza il loro appoggio, molto del lavoro che segue non sarebbe stato possibile.
Gli stemmi pubblicati, ove non indicato diversamente, provengono dal cosiddetto “Stemmario Volpicelli”, un codice in due volumi pubblicato nel 1635 e contenente un’amplissima raccolta di stemmi del Regno di Napoli. Lo stemmario, di rara bellezza, è attualmente conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli con collocazione XVII.24 e XVII.25
Salvatore Francesco Maria Cuccomarino